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Fette di cocomero - Una separazione

Con agosto, le fette di limone vanno in vacanza. Meglio un po' di cocomero, più dolce ed estivo. Per questo mese ci saranno soltanto racconti, autobiografici e non. All'amaca di Michele Serra preferisco un'amaca di qualche estate fa, al mare. Era in un boschetto, nascosta, ci passavo delle ore a leggere libri. Chissà se c'è ancora.

“Seguimi in caserma. Sono mesi che ti stiamo cercando, tu e il tuo motorino”.

Mi guardava con schifo, di quello schifo che ti fa sentire sporco. Era su una normalissima Opel Corsa grigia, mi aveva fermato davanti casa di Fabrizio chiedendomi informazioni per Bolsena. Aveva tirato fuori il distintivo mentre mi stavo levando il casco.

Un carabiniere in borghese si era preso la briga di seguirmi. Di seguire me.

Era la mia ultima corsa. Il mio Malaguti Phantom era truccato, come la gran parte dei motorini di Montefiascone. Non aveva un kit da corsa, che ritenevo inutile per un semplice scooter. I suoi componenti di troppo si limitavano ad una marmitta Arrow, ammaccata dopo il primo giorno, il variatore Pinasco, di cui non ho mai capito la funzione, un filtro Polini che cadeva ad ogni buca e un motore Malossi che aveva aumentato la cilindrata del mio cinquantino.

A vederla scritta, sembra veramente tanta roba. Ma il mio motorino raggiungeva al massimo gli 86 chilometri all’ora, cosa che capitava molto di rado visti i normali itinerari.

Ma era un motorino speciale, che attirava l’attenzione. Lo avevo verniciato di arancione nel garage di Fabrizio, ricoprendolo di saette grigie con una cura che non mi è propria. La sella era rivestita da una bandiera pirata, con un grande teschio bianco. Davanti, le doppie frecce al led erano separate da un numero adesivo, il 33 di Marco Melandri. I miei amici avevano optato per Valentino Rossi e il suo onnipresente 46, e mi chiedevano sempre il perché di quella scelta. Forse volevo solo distinguermi.

Era caldo, troppo caldo in quella caserma dalle stanze tutte uguali. I ventilatori accesi rimandavano in circolo aria fin troppo consumata. Il carabiniere mi conduceva nell’ultima stanza a destra. Era una stanza singolarmente spoglia, con una scrivania nera e tre sedie pieghevoli dello stesso colore. Sopra la scrivania vedevo dei verbali impilati e qualche appunto sparso.

Non sapevo cosa fare. Cercai di darmi un tono, di studiare in quel poco tempo una strategia di comportamento. Ero seduto nel modo più composto, annuivo con la testa e parlavo con gli occhi leggermente bassi, senza esagerare. La situazione era fin troppo chiara: voleva sequestrarmi il motorino, magari accompagnando il tutto con una multa salata.

Arrivò mia madre trafelata. Era preoccupata, agitata come può esserlo soltanto una mamma. Si mise a parlare sopra il carabiniere, a snocciolare la mia carriera da bravo ragazzo ed ottimo studente, più efficace del miglior curriculum. Era impensabile, per lei, che suo figlio fosse in un posto come quello.

La guardavo con sguardo perso, ripensando a quello che non le avevo detto. Fin dai primi tempi con lo scooter, quelli in cui prometti di non allontanarti troppo, avevo fatto viaggi di chilometri. Avevamo circumnavigato il lago di Bolsena e i suoi 43 chilometri, fermandoci a metà strada per il solito bicchiere di Estathe. Per noi, gli amici di sempre, erano distanze inaudite, piccole e indimenticabili odissee da quattordicenni. Eravamo andati a “tirare”, a gareggiare per vedere a che velocità riuscivamo a portare i nostri bolidi. Cercavamo un rettilineo con poco traffico, e ci sdraiavamo sul manubrio per diminuire la resistenza del vento. Non avevo mai vinto.

Mia mamma conosceva solo il bello. Le soste dalla nonna, che mi raccomandava di non andare via col buio quando erano ancora le tre del pomeriggio. La mia raggiunta indipendenza, che mi consentiva di andare e tornare da scuola senza che i miei ritardassero per accompagnarmi. Conoscendola, pensava con piacere anche a quando lo lavava di nascosto, pensando di farmi apparire migliore con un bel motorino pulito.

Come spesso accade nei paesi, prevalse il compromesso. Ci impegnammo con il carabiniere a non farlo più vedere in giro, quel cinquantino arancione. Sembrava così minaccioso, quando per me non era più che un fratello. Avevo sedici anni, e in regalo avrei ottenuto una moto Aprilia 125, perfettamente legale. Imparai presto a guidarla, e il fascino del nuovo mi avrebbe fatto presto dimenticare il mio vecchio motorino. Il carabiniere, dopo un’ora di colloqui e rassicurazioni, ci scortò fino all’entrata e ci congedò come vecchi amici.

Un mese dopo, a cena, i miei mi guardavano dissimulando qualcosa che non capivo. Parlavano vaghi, addentando distratti la loro fetta di carne. Aspettavano il momento giusto per parlare.

“Abbiamo venduto il motorino. A un rumeno, non lo conosco. Non è di Montefiascone. Ha detto che ci sarebbe andato in pista”.

Finisce così. Io, banale sognatore, mi aspettavo un ultimo giro. Magari intorno al lago, perché no, con gli amici e l’estathe.

I miei, come regalo, mi lasciarono la targa. La incorniciarono per farne un mio cimelio, mettendola tra le foto da bambino e i ricordi di una vita. Sopra lo sfondo rosso c’è un piccolo vetro trasparente. Quando la guardo, tra quei riflessi vedo me.

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