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Fette di limone - Tugno, numero 9


La cosa divertente era il numero. Non il cognome, Tugno. Quello è storpiato da sempre. Ha visto tutte le varianti possibili, da Grugno a Blugno, stabilizzandosi poi sul più generico Tugno.

Tugno, il soprannome di una vita. Non vuol dire nulla e mi sembra riassumere tutto.

Ma il 9, il numero dei bomber, dato a me che non la butto dentro neanche con le mani.

Io la prendo seriamente, perché quello è il momento della svolta, della presunta consacrazione.

Torneo di calcetto all’oratorio di Montefiascone. 18 squadre in tutto, con età variabile tra i 14 e i 23 anni. Dopo tante amichevoli, dopo tante partite sulla strada o sulla spiaggia, finalmente qualcosa di più serio. Qualcosa di bello e irraggiungibile, perché a me quel campetto ricorda il Bernabeu, e io so fare a malapena due palleggi.


Al campo arrivo già vestito. La maglietta è sotto il giubbotto, tanto per risparmiare un po' di tempo per il riscaldamento. Mi sento uno stralunato turista tedesco, varcando gli spogliatoi con le mie scarpe sportive, abbinate a dei lunghi calzettoni. Le scarpe sono messe alla meno peggio, come sempre mi succede quando vado a giocare. E in partita, ovviamente, disimparo a riallacciarle, fermando il gioco una decina di volte o poco meno. Mi becco gli insulti più disparati, che mi stupiscono per la loro sempre nuova freschezza e varietà.


Le gerarchie sono chiare: difensore centrale, in staffetta con il mio amico Simone, il ragazzo con il fisico da pensionato. Il fiato corto ci costringe a cambiarci ogni cinque minuti. Mentre uno sta in campo, l’altro lo insulta dalla panchina. Ci volevamo e ci vogliamo molto bene.


Il mio ruolo tattico è quello di separare i giocatori quando ci sono delle risse, spazzare ogni pallone si trovi dalle mie parti e non oltrepassare neanche per scherzo la metà campo. La mia specialità sono le pagelle del dopo partita, forse unico motivo per cui mi chiamavano a giocare. Gioco nell’unico modo possibile contro gente nettamente più brava di me: gomiti alti e furbizia.


Nelle sedici giornate che componevano la prima fase segno la miseria di due gol, entrambi nella stessa partita. Due gol, sono fiero di dirlo, di rara bruttezza: la tenace vittoria di un rimpallo e il tiro un po' sporco che si infila. L’eleganza è per le donne: questo è un gioco maschio! O almeno è quello che dico agli altri, che magari ci credono pure.


Le cose migliori mi riescono in porta. E dire che sono stato chiamato per caso: i due portieri della nostra squadra erano influenzati, e gli altri avevano deciso di mandarmi tra i pali. Voglio credere che la motivazione sia stata la mia discreta dimestichezza in quel ruolo, e non il mio essere il più scarso della squadra. L’ottimismo è la base dello sport.


Divento l’estremo difensore in una partita delicata, uno scontro che decide l’accesso alla fase conclusiva. Una partita da dentro o fuori. Mi dimentico di essere il buon Tugno, come vengo chiamato, diventando l’eroe per un giorno. Paro in ogni modo possibile, persino di naso e di faccia. Mi sento come Rocky dopo una raffica di colpi, mi verrebbe da urlare Adriano ma non lo faccio per scaramanzia. Finisco la partita con la porta inviolata e il simbolo della Nike stampato sulla faccia: siamo alla fase finale.


Arriviamo alla finale del terzo e quarto posto. Non ho giocato la semifinale: il sorteggio inclemente ci ha messo contro la favoritissima del torneo, e gli amici di sempre hanno preferito non convocarmi. Perché l’importante è vincere, alla faccia di De Coubertin. È l’unica cosa che conta, aggiungo io, in anticipo di qualche anno su Bonucci.

Io mi presento comunque, con il cappotto e l’espressione di ordinanza. Sono il condottiero di una battaglia persa, non posso che incitare i miei amici a resistere e perdere con onore. La cosa mi diverte da pazzi.



Come risarcimento morale gioco la finalina per il terzo posto da titolare. La nostra ultima partita di quel pazzo torneo. Corro su ogni pallone e mi avvento sulle tibie avversarie come un grosso cane affamato. A un certo punto, prendendo la sconsiderata decisione di avvicinarmi all’area avversaria, riesco perfino a segnare un gol. Il mio terzo gol, contro i settanta abbondanti del mio migliore amico, nonché capitano. Sarà il gol decisivo: esulto come se avessi vinto la Champions League. Mi guardo intorno, ci vedo i tifosi in delirio e gli striscioni sugli spalti. L’unico spettatore, il prete, mi fa l’ok con la mano e se ne torna a dire messa.


Il torneo successivo non venni chiamato, perché nel calcio non esiste gratitudine, e figurarsi nel calcetto. La maglia, la mia bella divisa arancione è diventata un bel pigiama. Di notte ogni tanto mi sogno il Bernabeu. Sono il numero 9, il pubblico mi acclama. Sono davanti alla porta.

E la mando fuori.

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