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Fette di limone - L'ultima Pasqua al mondo


Certo che prima doveva essere più facile. Campare, dico. Per una certa indiscutibile chiarezza nelle cose, una sequenza simile a quella delle stagioni, delle ore.

Tic, tac. 18 anni, patente, voto, sei grande. Tic, tac. Università, laurea. Tic, tac. Lavoro, ti fai una casa tua, una famiglia tua. Sei grande davvero.


Tic, tac.


Poi c’è il 2017, il solito discorso dei master e degli stage, quell’incertezza se sei grande davvero, con grande che vuol dire autonomo, indipendente. E non solo in senso monetario, che anche quello è importante. Intendo quel momento esatto in cui senti l’esigenza di stare solo, di mettere le basi per qualcosa di tuo, per costruire qualcosa senza sapere il progetto finale, che quello arriverà col tempo.


Ma è così sicuro che arriverà? La differenza tra il fuori sede universitario e il fuori sede stagista è labilissima, quasi inesistente. Trovarsi bene, benissimo in entrambe le situazioni, preservare la cura dell’istante tipica degli under 30 è meraviglioso ma non cambia le carte in tavola: non è ancora il nostro momento.


Prendi la Pasqua. Una festa magari di serie B rispetto al Natale, diciamocela tutta. Natale con i tuoi, Pasqua con chi vuoi. Ma qui a Torino, amici e conoscenti hanno optato per tornare giù, a casa, alle mangiate con la famiglia. I discorsi che si ripetono uguali, identici ad ogni festa comandata, le rimpatriate con zii, nonni e cugini, il menù immodificabile da almeno due generazioni. La Pasqua alle soglie dei trent’anni è ancora questa, deve essere questa.


Me lo testimoniano gli sguardi perplessi degli amici quando annuncio di rimanere a Torino, a casa mia. Le telefonate dubbiose dei parenti. Una certa nostalgia che prende me e la mia ragazza dai primi di aprile. Niente pizza di pasqua, quest’anno. Ed è una cosa che sconvolge, come se l’uovo comprato alla LIDL con lo sconto e non accompagnato dalla pizza di pasqua fosse una rinuncia necessaria, sì, ma dolorosissima.


La tentazione è quella di andarsene da qualche parte. Niente pranzo, niente Pasqua. Rimane il ponte, quello sì, la possibilità di andare da qualche parte, mangiare in qualche pizzeria. Brrr.


No, impossibile. Possiamo farcela, possiamo portare la Pasqua qui a Torino, in due. I preparativi cominciano il sabato, con la spesa che svaria in reparti che altrimenti non consideriamo neanche. Le ricette sono quelle di sempre, magari personalizzate alle esigenze del caso. Il vestito è quello della festa, quello che metti per compiacere il parentado mentre sogni la maglietta a maniche corte, i pantaloncini e persino le infradito.

L’istantanea finale è un tavolo imbandito, apparecchiato con i bicchieri per l’acqua e per il vino, la forchetta e il coltello messi bene in ordine, vicino. Il tavolo allungato, quella che chiami la tovaglia buona. Intorno lo stendino, i libri in ordine precario, il gattino cinese che agita il braccio. Qualcosa intorno che sta nascendo, imperfetto, che non allontana la nostalgia ma la tiene al caldo, serena. Qualcosa intorno che sa di casa.


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