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Fette di limone - Se la Disney si mette a fare i live action




Ce lo hanno detto in tutti i modi: non si inventa più nulla di nuovo. Sembra incredibile, ma questa è l’era in cui si inventa il vecchio, almeno in arte. Reboot, sequel, prequel, versioni restaurate: ci si attacca ai miti di un tempo, che ormai sono diventati brand con un loro peso specifico. La nostalgia vende di più, ed è anche più economica.


Alcune volte viene bene, la maggior parte no. Ma serve a coprire lacune immaginative, ansie da prestazione, storie troppo impegnative.


La cosa incredibile è che da qualche tempo lo fa pure la Disney. La Disney dei film perfetti, senza una virgola fuori posto. La Disney delle storie confezionate come sanno loro. La Disney che è una macchina da guerra, che ha comprato Star Wars, la Marvel e rimane sempre con quell’area di purezza, di magico.


Ecco, se la Disney comincia a investire sui cosiddetti live action, bisogna fermarsi, perimetrare il campo diversamente. È come se il Barça si mettesse a fare catenaccio, per dire.


I Live action della Disney sono essenzialmente quattro, e posso dire di averli visti tutti partendo con lo stesso stato d’animo: bah. Ma c’era veramente bisogno? Bah. Ma erano già perfetti così, cosa bisognava aggiungere? Bah. Ma soprattutto: perché devono intaccarmi il ricordo d’infanzia, che per tutti è e sarà sempre targata Walt Disney? Bah, bah e ancora bah.


Poi l’uscita dal cinema, beh, quella è un’altra cosa.




Il percorso della Disney, reboot dopo reboot, ci fa capire molte cose. Il primo passo è stato Alice in Wonderland, una sorta di Alice 2.0 diretta da Tim Burton col solito Johnny Deep ed Helena Bonham Carter. Ma il capolavoro di Carroll è un’opera assurda, irripetibile, e fin troppa grazia era stata data nella versione disneyana degli anni ’50, meravigliosa e inquietante. Il miracolo a Burton non riesce, ed Alice in Wonderland è un tentativo memorabilmente fallito, una cosa che ti vergogni di aver visto.


No, i capitoli II non hanno senso, davvero. Meglio, molto meglio, il tentativo di Maleficent: la storia della Bella addormentata vista dalla parte di Malefica, interpretata nel caso da Angelina Jolie. Idea potenzialmente meravigliosa, che dà un senso vero all’operazione. Malefica diventa un personaggio in chiaroscuro, trasformando il classico in contemporaneo. Per capirci: Once upon a dream è cantata da Lana del Rey. Operazione riuscita, Maleficent è il film più visto del 2014.




Se il segreto dei film Marvel è Tony Stark, quello dei live action Disney sono i toni dark. Con un pizzico di tocco autoriale e un bell’attore carismatico. È il caso di Cenerentola, con la sempre fantastica Cate Blanchett. La storia di Cenerentola è fin troppo inflazionata, fin troppo incistata nell’immaginario collettivo. La mossa del regista, Branagh, è quella di togliere un certo buonismo, una certa allegria immotivata: la fata buona, peraltro interpretata dalla solita Helena Bonham Carter, è relegata a un ruolo di macchietta, come se l’autore ci dicesse che no, non è quello l’importante. Non è la magia, non sono i sogni che sono desideri, quella roba è superata. Il principe, per capirci, è Richard Madden, alias Robb Stark. Altro che fatine. Cenerentola diventa un personaggio vero, non è la ragazza passiva di prima. La svolta progressista della Disney, qui, è funzionale a riattualizzare un classico bello, sì, ma incredibilmente datato. Quello che forse aveva più subito il passare del tempo. Gas Gas escluso, lui rimane eccezionale.




Situazione diametralmente opposta per La Bella e la Bestia. Bella è la principessa Disney più sveglia e consapevole, come sa bene il prode Gaston. È quella che legge, che inventa, attenta agli anziani e ai bambini. Una à la Emma Watson, per capirci. Ed è proprio la Watson ad impersonarla nell’ultimo live action targato Disney. Che stavolta, diciamolo, se ne frega di punti di vista divergenti, riletture e controcanti. La Bella e la Bestia ha le canzoni di un tempo, magari modificate nel testo, ma sempre quelle sono. La Bella e la Bestia è una gara con l’originale, mantenendo la trama, la colonna sonora e la caratterizzazione dei personaggi. E il risultato, ammettiamolo, è strepitoso. Un’esplosione di allegria, di freschezza, di gioia e disperazione insieme, che ti fa piangere sul ballo tra i due che hai già visto mille volte, che già sai come va a finire ma loro stanno lì, con la Watson che volteggia e lui così gigante, con gli occhi così sinceri. Uno sfarzo, una cura del dettaglio tale che rende sensato anche il famoso pranzo con Be your guest, Stia con noi, che diventa una scarica di oggetti e di luci, sfiorando la psichedelia e la parodia del Nirvana e rimanendo paradossalmente perfetto. L’entusiasmo, soprattutto nella versione inglese, è quello del musical, con i suoi toni esagerati e squisitamente teatrali. Lo testimonia la scelta di Ewan McGregor nel delicatissimo ruolo di Lumière. E questo Lumière, diciamolo, c’est magnifique.




Un film perfetto, che non inventa niente perché non ne ha davvero bisogno. Al punto che il primo personaggio dichiaratamente gay della Disney, quella sagoma di Letont, non fa scalpore e soprattutto è assolutamente naturale. Non ci sono messaggi, allusioni, trovate pubblicitarie. Non possono esserci in un film che fila così liscio, e lo fa da Dio.


Ecco, l’esempio che fa crollare tutto. Allora non c’è bisogno di cambiare, di attualizzare. Cosa c’è da imparare in queste operazioni? Che bisogna prendersi cura del passato, interrogarsi sempre su cosa può dare, e soprattutto che ogni riscrittura è impossibile senza l’urgenza, la voglia, la necessità della rilettura, di un lavoro critico. Che anche il catenaccio, se vuoi, bisogna farlo bene.


Vaglielo un po’ a spiegare al Barça…

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