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Fette di limone - L'ora di Cena (o del wrestling spiegato bene)


Se avete circa 35 o anche 40 anni, tra le icone della vostra infanzia ci sarà un signore con i baffoni e la bandana rossa in testa, magari con un boa giallorosso addosso.

Se ne avete 25 o al massimo 30, come me, conoscerete perfettamente un rapper palestratissimo con il lucchetto al collo e il cappellino in testa. E se qualcuno muoverà il palmo della mano davanti alla faccia, voi capirete perfettamente che vuol dire You can’t see me.



Sto parlando di Hulk Hogan e John Cena, campioni e simboli di quello strano ibrido che risponde al nome di wrestling. Da piccoli lo abbiamo guardato tutti, abbiamo collezionato le figurine e abbiamo provato le mosse sulla sorella più piccola o la cuginetta, alla faccia del Don’t try this at home (certo, come no).

Poi lo abbiamo abiurato, come tutte le cose d’infanzia. Roba superata, apoteosi del trash, gente che si mena per finta.



La teoria iniziale, sulle botte, è che si menassero per davvero e poi a un certo punto decidessero chi far vincere, facendogli fare la mossa finale. E la cosa più assurda è che ci sembrava perfettamente credibile.


La realtà è che le botte sono vere ma predeterminate, decise già a monte. Al massimo attutite, in un certo senso protette. Il fatto è che il wrestling è sport-entertainment, ed è miope soffermarsi sulla parte meno importante. Quella sportiva, appunto.


Il bello del wrestling targato WWE, quello con cui siamo cresciuti, sta nei personaggi, le rivalità, i monologhi, in quelle che possiamo tranquillamente definire storie, senza timore di apparire ridicoli.


Il bene contro il male, i tradimenti, la gelosia, la dimostrazione di forza, sono gli archetipi che stanno alla base della preistoria del wrestling, la parte fondativa e imprescindibile. Ed ecco Hulk Hogan e la sua esagerata lealtà, le sfide contro l’arabo Iron Shiek e il sovietico Nikolai Volkoff, gli scontri con il solito andamento dove prima le prende, poi si riscatta e alla fine, pensa, riesce anche a vincere.


Trame semplici, intuitive, versione gladatoria e fin troppo americana dei miti di ogni civiltà. E l’America, che i miti se li va continuamente a costruire, ha trovato nel wrestling una fucina attivissima.


Il passaggio da Hogan a Cena, passando per The Rock e il suo sopracciglio hollywoodiano, accoglie e precede un certo tipo di serialità, un prodotto più adatto per il pubblico di oggi. I personaggi nudi e puri, manichei, sono sostituiti da personalità sfaccettate, diversamente etichettabili. I promo, i discorsi al microfono, sono a cavallo tra realtà e finzione, tra il mondo narrativo della WWE e la vita privata di personaggi fin troppo pubblici. Una breccia poco chiara e poco definita, forse poco definibile. I messaggi su Twitter, le ospitate televisive, i video su Instagram sono della persona o del personaggio? E poi, è davvero sensato trovare un confine così netto?


Sono passati undici anni da quando i miei amici hanno detto basta. Colpa di una Wrestlemania infantile, con l'idolo dei bambini Rey Mysterio che diventa campione dei pesi massimi, lui che è alto circa 1,70. Un prodotto, insomma, confezionato per un pubblico in cui non si ritrovavano più. Si sono persi i grandi ritorni, campioni del passato come Godlberg e Brock Lesnar che a distanza di tredici anni si riprendono il main event di Wrestlemania, The Rock che torna da Hollywood per rubare lo show, la nostalgia che regna imperterrita anche nel mondo del wrestling, a coprire buchi narrativi e personaggi acerbi, a dare fiammate e fiammelle come al solito.


E questa nostalgia, oggi, ci riporta a Italia 1, all’appuntamento fisso del sabato, Smackdown. A Giacomo Ciccio Valenti e ai suoi pem e strapem, a Nunzio l’italiano che le prende da tutti, a Booker T che sembra Taribo West e a Batista l’aaaaaaaaaaaaaanimale. Al cornutone JBL (ma quanto c’è rimasta impressa quella telecronaca? Pazzesco) e a John Cena che fa i rap e qualcuno ha pure il disco a casa, masterizzato.

Ripensa a Eddie Guerrero che era un artista, un guitto dal talento pazzesco, un personaggio che sembra uscito dalla penna di un Cervantes. Ripensa alle lacrime, tante, in un giorno d’inverno. La notizia al televideo, laconica. Una canzone dei 3 doors down, un video tributo. Una storia che si interrompe fa sempre male.

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